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In caduta libera

Aggiornamento: 18 mar 2019

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di Alessia Lombardi

Dei molti libri in circolazione nei quali viene raccontato retrospettivamente l'ultimo periodo di vita di un caro ammalato, questo di David Rieff - figlio della celebre Susan Sontag - colpisce particolarmente per l'impostazione.

Non è un libro sul lutto, sulla malattia come catalizzatore dell'attenzione del lettore, né un libro sulla celebrazione postuma di una madre che in questo caso è anche un'intellettuale di spicco, né la consegna ad un pubblico voyeur della sua vita sopra le righe, né, ancora, sulla relazione che li ha legati, che per stessa ammissione del figlio, non era mai stato di slanci fisici d'affetto.

Non tratta semplicemente gli ultimi mesi di vita di Susan ma restituisce ad ognuno di noi la possibilità di farsi domande sul rapporto che abbiamo con la morte e di conseguenza con la vita. La morte di Susan infatti e la sua terribile malattia sollevano interrogativi, riflessioni che tutti ci toccano ed a tutti appartengono in quanto esseri mortali.


Non sono pagine che s'impongono semplicemente per la narrazione intesa come trasmissione di un'esperienza - per quanto intense, vivide e mai scadenti verso l'affettazione stucchevole, ma anzi lucide, franche e disincantate - quanto per il pungolo costante ma misurato, a cui ci sottopongono.

Il libro è pieno di questi pungoli: quali sono le responsabilità di chi sta accanto ad un morente? quale la soglia di sacrificio a cui è lecito sottoporsi o alla quale ognuno è disposto? David arriva addirittura ad ammettere che si sarebbe sostituito ben volentieri alla madre tanto il voler vivere di quest'ultima era così drammaticamente profondo.

Ci sono limiti al nostro ruolo di partecipanti al 'gioco della menzogna' nel quale può accadere che si venga catapultati dal morente che, più o meno consapevolmente, ci invita a sostenere e recitare una parte? Susan, ad esempio, non voleva morire - voglio vivere ed aborro la morte scriveva già nel suo diario appena 16enne - e aggrappata come un funambolo a qualsiasi cosa le restituisse un mimino di speranza, cercava conferme, in chi le stava vicino, sul fatto che ancora una volta ne sarebbe uscita illesa. Dopo il trapianto a cui si era sottoposta, in seguito alla leucemia, insistette perché nella sua stanza (all'ospedale) affiggessimo sul muro di fronte al letto un foglio di carta dove dovevamo segnare il numero di giorni trascorsi dal trapianto. Questi numeri segnavano i primi giorni della sua nuova vita, diceva.

Ancora, perché il senso di colpa del sopravvissuto? Quale il nostro rapporto con la fugacità del tempo? Quale la nostra elaborazione riflessiva sulla malattia? E' una colpa ammalarsi?

Un libro schietto, lontano dalla logica imperversante - e spesso perversa - del testo consolatorio che insegna, che dà risposte, che dice "come si fa", un testo che sollecita a non sfuggire una riflessione sull'inesorabilità della morte che tutti ci coinvolge nella duplice veste di spettatori e attori.

Per Susan, entusiasta della vita, il 'non esserci più' appariva impensabile e inimmaginabile, tanto da essere disposta a sopportare ed a sottoporsi a lunghi calvari medici ed a pene indicibili per strappare anche un solo giorno in più al disfacimento del corpo.

Lettrice di Elias Canetti, Susan, che ne condivideva la battaglia contro la morte, considerata uno scandalo ed annientamento dell'essere, trascorse la sua vita senza mai venire a patti con la sua mortalità eludendola con una vita ricca ed intensa che le pareva strano dovesse un giorno terminare.

Due, essenzialmente, i motivi che la rendevano entusiasta per quella vita che pur sapeva bene essere limitata temporalmente: il primo, il suo sentirsi speciale in quanto miracolata per ben due volte essendo sfuggita ad un tumore particolarmente aggressivo al seno e l'altro all'utero. Perché mai 70enne non avrebbe potuto sconfiggere per la terza volta la morte? L'altro, la convinzione che l'esistenza fosse legata a doppio filo al concetto di progettualità per cui nessuna morte sarebbe sopravvenuta finché tutti i progetti non fossero stati portati a compimento. E poiché Susan di interessi ne aveva a bizzeffe, questi erano il suo baluardo e la sua protezione contro l'ineluttabilità della morte.


Susan non era credente, né simpatizzante di teorie new Age o misticheggianti, non era una sprovveduta né sconsiderata, la sua non era ingenuità. La muoveva piuttosto l'idea che laddove ci fosse vita, intesa non soltanto come assunto biologico ma come forza vivificatrice, vitalità, capacità creativa, la morte non potesse che indietreggiare ed era inoltre convinta che il suo atteggiamento positivo fosse di supporto alle terapie che le somministravano. In qualche modo aveva ragione: la conferma veniva proprio dai medici che l'avevano in cura e che si dichiaravano sorpresi dal fatto Susan fosse sopravvissuta al primo tumore di natura maligna che raramente graziava chi ne fosse affetto.

Nei confronti della medicina riponeva quindi grande fiducia e le sue aspettative andavano a tal punto oltre quello che è il suo compito di garante della salute tanto da farle ammettere: un giorno forse ci sarà una qualche immortalità chimica.


Ancora una volta i pungoli, le domande scomode: quale il rapporto tra morte, malattia e cura? Quali i limiti della medicina e i suoi eccessi? E' giusto avanzare sempre maggiori pretese nei confronti della medicina? Quando dobbiamo arrenderci?

David ci invita ancora a riflettere: chiediamo ai medici di essere salvati quasi la nostra vita non conoscesse limiti temporali e senza considerare, al contrario, che per qualche causa dovrà terminare. Quando questo avviene, è lecito 'incolpare' la medicina?

Il nostro desiderio di vivere ci fa dimentichi della nostra mortalità: Sì, certo, bisogna far meglio e non dubito che grandi medici come Stephen Nimer ci riusciranno. Ma, con tutto il rispetto, la realtà brutale dell'essere mortali implica che, realisticamente, ci sono dei limiti al nostro far meglio, scrive David.


Susan aveva 71 anni quando è morta nel 2004 e lo ha fatto non riconciliandosi con la morte ma al contrario inveendo contro la stessa quando le forze, le speranze iniziarono a vacillare sotto il peso di terapie alle quali il suo corpo, esausto, non rispondeva più.


Swimming in a sea of death è il titolo originale tradotto in italiano con Senza consolazione.

Senza consolazione pone l'accento sull'assenza di conforto, di sollievo al pensiero della morte incombente, quasi Susan sia rimasta in qualche modo sospesa in una condizione di incompiutezza, non risoluzione e con essa, di amarezza.

Di fronte alla paura della morte c'è in effetti tutta una letteratura tanatologica che invita a sciogliere il nodo della finitezza prima dell'ultimo atto della vita suggerendo strade e percorsi per ben morire e non lasciare così spazio all'irresolutezza e con essa allo sconforto e quasi ad una sorta di pena: senza consolazione, appunto.


Ma la reazione alla morte, nonostante quest'ultima ci accomuni tutti, è fatto squisitamente soggettivo. Si tratta del compimento non di un'esistenza qualsiasi ma della nostra personale esistenza ed è mio convincimento che, pur nella necessità di una corretta educazione alla morte - sono favorevole alla liberazione di quest'ultima dal regno del silenzio dove viene così maldestramente confinata per tabù - sia pericoloso spingere alla standardizzazione della risposta a questo specifico evento quasi esistesse un unico modo giusto per andarsene lasciando velatamente trapelare una sorta di condanna per chi non si uniformi nel percorso di riconciliazione.

L'uomo è libero di scegliere la sua individuale modalità di risposta e in questo, la filosofia, che non ammette omologazioni, è garante della legittimità delle reazioni individuali. Diversamente, una tipizzazione riguardo alle risposte potrebbe lasciar aperta la strada ad un indottrinamento in merito alla migliore educazione da impartire in vista di un fine.

Ma Susan è davvero rimasta senza consolazione, qualcuno obietterà: se n'è andata maledicendo la morte e senza accettarne l'inesorabilità.

In realtà Susan è morta portando a compimento il suo progetto di vita, dando forma alle sue idee e fedele ai suoi convincimenti, confortata dalla vicinanza di chi le è stato vicino fin da ultimo - e se questa è una consolazione per il morente, Susan, no, non è morta senza consolazione -.

Si può morire convertendosi oppure senza riappacificarsi con l'idea della morte; in qualunque caso non sarà mai senza consolazione se accanto a noi, a nuotare in un mare che ci accomuna, sarà presente qualcuno che ci accompagna.


Quel mare di morte, a cui fa riferimento David, ecco che diventa allora il cuore dell'intero libro, quell'anima pulsante che svanisce dietro una traduzione, secondo me, non del tutto appropriata che offusca il vero messaggio e cioè che la morte è un mare nel quale tutti indistintamente morenti e non, nuotiamo insieme:


Mentre lei si spegneva, noi nuotavamo accanto a lei, nel mare della sua stessa morte, guardandola morire. E infine morì davvero. Quanto a me, mi scopro a nuotare ancora in quel mare.




David Rieff, Senza Consolazione - Gli ultimi giorni di Susan Sontag, Mondadori, 2009

Susan Sontag, Rinata - Diari e taccuini 1947-1963, Nottetempo, Ritratti, 2018








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